SAVIANO - Questa è la maschera. “Maschera” è “masca”, “strega”, e al maschile sarebbe, appunto, “maschio”, lo stregone.
L’ambivalenza della parola si riscontra nel travestimento usuale eseguito durante il carnevale, quando il maschio si abbiglia da femmina e viceversa. Altri fanno derivare il lemma da “manducare”-“mand’sca”, usato nel senso di “mangiatore di bambini” e di “fantasma” da Plauto. L’Orco è chi mangia bambini. Dove sta la sua tana? Basta smettere di pensare col cervello e osservare l’altro cervello che ha sede nella pancia. Insieme, le attività dei due organi , biunivoci, formano la mente. Per rintracciare la “maschera” ci si benda, ci si costringe a guardar giù, verso gli inferi della corporalità. La benda, qui, in questo lavoro di Savio, è residuo nero di un bianco bendaggio corporale più esteso, di un rituale di imbalsamazione e dunque la “masca” è la morte (lemma anch’ esso derivato da “mordere, distruggere”) peraltro evidenziata nel volto bianchissimo, “pallido come la morte” del manufatto dell’artista che ha obbedito all’ordine “consegnare la testa della morte”. E’ appena il caso di annotare che, nell’area vesuviana cui appartiene l’artista, la morte è chiamata “’a naso ‘e cane”, la “naso-di-cane”, con riferimento preciso al teschio raffigurato, per esempio, sui pali dell’Enel. Il canbe, come si sa, è animale inferissimo. I nostri avi, durante il carnevale ( si noti la corporalità di “carne”), si dipingevano il volto con la farina, la stessa del clown o, secondo le tradizioni locali, con la carbonella del forno in cui mettevano l’impasto di farina. Come Magritte potremmo affermare allora che “questa maschera non è una maschera” poiché essa si eleva a simbolo, vale a dire diventa “una cosa che si riferisce a un’altra cosa”. C’ è da chiedersi perché, per poter comunicare, utilizziamo i sostituti delle cose e non le cose stesse. La risposta ci sembra evidente: è impossibile attivare tra le cose, quelle c.d. reali, gli stessi legamenti logici e le combinazioni di senso che consentono, invece, i simboli. E’ qui, in quest’attività di “legatoria”, la fonte della conoscenza, una specie di laboratorio sperimentale permanente che dura per tutta l’esistenza. Chi è, di cosa è simbolo questa testa bendata e con un motto notissimo? E’ ciò che la nostra mente collega. Ed ecco allora che è, può essere, la testa di uno dei gessi di Pompei e verrebbe da immaginare l’intero Museo Archeologico Nazionale con le sue statue bendate come l’amore (che ha manifestazioni neurovegetative, da “pancia”) o come la “fortuna”, entrambi ciechi e dunque adatti l’uno all’altro come il bianco e il nero, colore degli scacchi; entrambi sono evocativi del proprio contrario e comunque della morte e della vita. Non so perché (o, meglio, lo so bene ma non affronto adesso la questione poiché la faccenda riguarda gli standard del pensiero) la sagoma di questa maschera ricorda il volto del cavaliere che gioca a scacchi con la morte ne “Il settimo sigillo” di Bergman. Le componenti “istinto-logica”, tipiche dell’attività creativa o scientifica ed agenti fortemente nel sociale sotto forma di “valore”, emergono dalla meditazione di Giacomo Savio manifestando la loro potenza (possibilità di) implicita, come implicito è un rovesciamento di senso tipico del carnevale. L’insegna -araldica- “Semel in anno licet insavire” viene tradotto come “è lecito impazzire una volta all’anno” ma si “impazzisce” fingendo di impazzire e continuando riti di follia teatrale con la benedizione di Seneca e Sant’Agostino, che, con la loro autorità, consentirono al medioevo di attribuire alla faccenda un valore che non è,come appare, liberatorio ma censorio: “puoi fare questo una sola volta all’anno”, laddove il “fare questo” appartiene alla natura e alla cultura dell’uomo, serio solo quando gioca. Non si coglierebbe l’ironia di questa maschera se non si intendesse l’ “insavire” non solo come “abbandonare un comportamento savio e diligente” ma anche come “diventare sapienti” e la sapienza, in tal caso, è il “saper sentire” delle visceri, l’istintuale. Che poi Giacomo Savio si chiami appunto “Savio” ed è di Saviano, è un’ironia allegata all’ironia, il che lo autorizza a “insavire” o abbandonando sé stesso o trovando sé stesso. Insomma, la cecità è per lui una condizione da monetina da lanciare per aria, un trovarsi come l’eroe Ercole a un bivio. Siamo pertanto in presenza di un simbolo pluriverso in cui agiscono pulsioni e intenzioni, natura e cultura e che nel nome stesso trovano il suo esito. Intendiamo qui, contagiati da Savio, “carnevale” nel modo più evidente, e dunque più nascosto, possibile: “carne-vale”. “Vale” vale come “addio”, cioè il lasciare il corpo, sede dell’identità, medesimazione ed ipseità anagrafica, l’ andare verso la mente in autoscopìa, il che è precisamente il contrario di ciò che si intende per “carnevale” e in tal senso seguiamo le indicazioni della “masca” bendata. E quel “chiodo fisso”? E’ un reperto di cilicio e nel contempo un amuleto o un attrezzo apotropaico per eseguire sul volto della strega un vudù.
di Mimmo Grasso (artista) 08/03/2011
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